mercoledì 31 marzo 2010

REGIONALI 2010: disastro PD!

da "Il Fatto Quotidiano", 31 marzo 2010

Mentre il Pdl di Meno male che silvio c’è perde 8,5 punti in un anno e tocca il minimo storico, la Lega lo asfalta al nord e Fini può rivendicare i successi in Lazio e Calabria con i suoi Polverini e Scopelliti, soltanto il vertice del Pd poteva trasformare la débâcle berlusconiana in una Caporetto del centrosinistra (fra l’altro, scambiata per una vittoria).
Bersani, cioè D’Alema e i suoi boys (almeno quelli rimasti a piede libero), ce l’han messa tutta per perdere le elezioni più facili degli ultimi anni e, alla fine, possono dirsi soddisfatti.

In Piemonte hanno candidato una signora arrogante e altezzosa, bypassando le primarie previste dallo statuto del Pd per evitare di dar lustro al più popolare Chiamparino e riuscendo nell’impresa di consegnare il Piemonte a tale Cota da Novara per solennizzare degnamente il 150° dell’Unità d’Italia.
A Roma, la città del Papa, hanno subìto la candidatura dell’antipapista Bonino per mancanza di meglio (il meglio ce l’avevano, Zingaretti, ma l’hanno nascosto alla Provincia per evitare che, alla tenera età di 45 anni, prendesse troppo piede), poi l’han pure lasciata sola per tutta la campagna elettorale.
In Campania, calpestando un’altra volta lo statuto, hanno sciorinato un signore che ha più processi che capelli in testa perché comunque era "un candidato forte": infatti.
In Calabria han ricicciato un giovin virgulto come Agazio Loiero, che quando ha perso come tutti prevedevano si è pure detto incredulo, quando gli sarebbe bastato guardarsi allo specchio.







Non contenti, questi professionisti del fiasco, questi perditori da Oscar le hanno provate tutte per fumarsi anche la Puglia, candidando un certo Boccia che perderebbe anche contro un paracarro, ma alla fine hanno dovuto arrendersi agli elettori inferociti e concedere le primarie, vinte immancabilmente dal candidato sbagliato, cioè giusto. Hanno inseguito il mitico "centro" dell’Udc, praticamente un centrino da tavola all’uncinetto, perché "guai a perdere il voto moderato".
Infatti gli elettori sono corsi a votare quanto di meno moderato si possa immaginare: oltre a Vendola, i tre partiti che parlano chiaro e si fanno capire, cioè Lega, Cinque Stelle e Di Pietro.
Altri, quasi uno su due, sono rimasti a casa o han votato bianco/nullo, curiosamente poco arrapati dai pigolii del "maggior partito dell’opposizione" e dal suo leader, quello che "vado al Festival di Sanremo per stare con la gente" e "in altre parole, un’altra Italia".
Se, col peggiore governo della storia dell’umanità, l’astensionismo penalizza più l’opposizione che la maggioranza, un motivo ci dovrà pur essere.
L’aveva già individuato Nanni Moretti nel lontano febbraio 2002, quando in piazza Navona urlò davanti al Politburo centrosinistro "con questi dirigenti non vinceremo mai".
Sono gli stessi che sfilano in tutti i salotti televisivi, spiegando che la Lega vince perché "radicata nel territorio" (lo dicono dal 1988, mentre si radicano nelle terrazze romane o si occupano di casi urgentissimi come la morte di Pasolini) e alzando il ditino contro Grillo, che "ci ha fatto perdere" e "non l’avevamo calcolato".
Sono tre anni che Beppe riempie le piazze e li sfida su rifiuti zero, differenziata, no agli inceneritori e ai Tav mortiferi, energie rinnovabili, rete, acqua pubblica, liste pulite, e loro lo trattano da fascista qualunquista giustizialista.
Bastava annettersi qualcuna delle sue battaglie, sganciandosi dal partito Calce&Martello e dando un’occhiata a Obama, e lui nemmeno avrebbe presentato le liste. Bastava candidare gente seria e normale, fuori dal solito lombrosario, come a Venezia dove il professor Orsoni è riuscito addirittura a rimpicciolire Brunetta.
Ma quelli niente, encefalogramma piatto.

Come dice Carlo Cipolla, diversamente dal mascalzone che danneggia gli altri per favorire se stesso, lo stupido danneggia sia gli altri sia se stesso. Ecco, ci siamo capiti. Ce n’è abbastanza per accompagnarli, con le buone o con le cattive, alle loro case (di riposo). Escano con le mani alzate e si arrendano. I loro elettori, ormai eroici ai limiti del martirio, gliene saranno eternamente grati
MARCO TRAVAGLIO

sabato 27 marzo 2010

PASOLINI: il GENOCIDIO delle LUCCIOLE

Il 1°febbraio 1975 Pasolini pubblica sul Corriere della Sera il controverso articolo “IL VUOTO del potere in Italia”(noto come “l’articolo delle lucciole”).
Mi aiuterà nell’analisi di questo scritto il saggio “Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini” di GiULIO SAPELLI, economista e docente alla Statale di Milano (nonché mio ex professore).

L’articolo esprime innanzitutto una feroce critica alla modernizzazione capitalistica come genocidio dei valori particolaristici.

Pasolini guarda alla conservazione delle tradizioni allo stesso modo in cui un rivoluzionario continua a desiderare il cambiamento sociale.
La rivendicazione dell’integrità delle culture locali, soprattutto di quelle sottoproletarie, viene vista non tanto come elemento di contrasto o di contraddizione rispetto al capitalismo, ma come un fattore di resistenza alla pervasività dell’economia di mercato in tutti i rapporti sociali.

Pasolini è un sostanzialmente un conservatore che vede la civiltà contadina come la più idonea alla conservazione dell’uomo nella sua integrità e che però si rende conto che essa non può essere eterna, in quanto viene distrutta e trasformata dall’industrializzazione.

Ciò che lo colpisce maggiormente è la rapidità con cui si produce questo cambiamento: in 20 anni l’Italia compie un percorso storico che in altri paesi europei si era compiuto in due secoli, e da ciò discende la sua preoccupazione che alla crescita economica non corrisponda un pari sviluppo della crescita intellettuale e culturale delle popolazioni investite dalla trasformazione.

Il boom economico degli anni ’60 e la repentina industrializzazione hanno coinciso con l’emergere della società del consumo.
In particolare la ricchezza non è vissuta come bene pubblico, ma come consumo individuale.
E il genocidio sta proprio nell’assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia da parte di quelle classi e sub-culture che fino a quel momento ne erano estranee.
Insomma un gigantesco edonismo interclassista che cancella tradizioni e valori millenari, come quelli della civiltà contadina.
I tanti valori particolari sono stati brutalmente soppiantati da un unico valore: il consumo.


La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale "Il Politecnico", cioè all'immediato dopoguerra..." Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo ("L'Europeo, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente.
Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra "fascismi" fatta sul "Politecnico" non è né pertinente né attuale.
Essa poteva valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista.
Ma una decina di anni fa, è successo "qualcosa". "Qualcosa" che non c'era e non era prevedibile non solo ai tempi del "Politecnico", ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo, mentre accadeva).
Il confronto reale tra "fascismi" non può essere dunque "cronologicamente", tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel "qualcosa" che è successo una decina di anni fa.

Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa.
Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).
Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole.
Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta).
Quel "qualcosa" che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque "scomparsa delle lucciole".


A far scomparire le lucciole è il regime politico.
Infatti sono sempre la società e la politica a determinare i grandi mutamenti economici, poiché l’economia non si spiega mai di per se stessa in quanto non è autoreferenziale.


Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili.
La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi.
Osserviamole una alla volta
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Prima della scomparsa delle lucciole
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta.
Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel "Politecnico": la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione.
E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva.
La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano.
Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo
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Repressivo da punto di vista psichico, non politico, perché imponeva la morale cattolica ufficiale, la religione e non la fede.

In tale universo i "valori" che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità.
Tali "valori" (come del resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale.
Ma nel momento in cui venivano assunti a "valori" nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano.
Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle "élites" che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani (…)

Questi valori assumevano tutt’altro significato quando erano ancora elementi prepolitici e prepartitici ( la fede religiosa, l’amore della famiglia), ma diventando valori di Stato perdono il proprio legame vitale con le persone che vi fanno riferimento per orientarsi all’azione. Quando la fede diventa valore di Stato si muta in religione, diventa instrumentum regni
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Durante la scomparsa delle lucciole
In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul "Politecnico" poteva anche funzionare.
Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la massa operaia e contadina organizzata dal PCI - sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che "le lucciole stavano scomparendo".
Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell'analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche.
Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l'immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava "benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel "Manifesto" parlava Marx.


Questo genocidio storicamente progressivo è quello delle culture particolari. I valori tradizionali erano reali fintanto che appartenevano ai mondi vitali delle vecchie culture contadine e non facevano ancora parte della sfera dell’ideologia.

Dopo la scomparsa delle lucciole
Le lucciole rappresentano un mondo di valori, di mores nel senso antropologico di miti, credenze, costumi, mondi vitali.

I "valori" nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più.
E non servono neanche più in quanto falsi.
Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia).
A sostituirli sono i "valori" di un nuovo tipo di civiltà, totalmente "altra" rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale.
Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati.
Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima "unificazione" reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale.
Il trauma italiano del contatto tra l'"arcaicità" pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler.

Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell'industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.

In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l'industrializzazione degli anni Settanta costituisce una "mutazione" decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant'anni fa.
Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a "tempi nuovi", ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche
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A suo giudizio, la violenza con cui le masse contadine sono state proiettate nella società dei consumi ha fatto sì che esse perdessero tutti i loro valori originari e non ne assumessero altri che quelli del consumismo.

Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale.
Basta soltanto uscire per strada per capirlo.
Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla.
Io, purtroppo, questa gente italiana, l'avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari.
Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere.
Ho visto dunque "coi miei sensi" il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza
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Mussolini poteva far sentire i suoi discorsi alla radio, ma non forniva alle masse alcuna condizione per spingerle a dare un consenso al regime, dato che non poteva garantire lo sviluppo economico. Le masse manifestavano una sorta di accettazione pragmatica dell’esistente, ad aderire al fascismo erano piuttosto gli strati deboli ed evanescenti delle classi medie promosse proprio dal regime: l’alta e media burocrazia dello Stato.
C’era dunque una dissociazione delle coscienze: nessuno credeva davvero ai miti del fascismo, a parte i piccoli borghesi.
E’ quanto è avvenuto anche in Unione Sovietica: una volta crollato il regime del terrore, la popolazione non sostiene più la dittatura.


Nell’Italia del secondo dopoguerra ha vinto la democrazia, non tanto per le riforme istituzionali, ma perché ha portato all’enorme aumento del livello di vita: è stata questa la grande rivoluzione.

(…)I "modelli" fascisti non erano che maschere, da mettere e levare.
Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima.
Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant'anni di fascismo, il popolo portoghese ha celebrato il primo maggio come se l'ultimo lo avesse celebrato l'anno prima.(…)
Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri.
È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore.
Quando non si tratti dell'ammiccante luce dell'arguzia e della furberia.
Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità.

Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i "flatus vocis" delle solite promesse stereotipe.
In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d'ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto.


Queste parole profetiche sono le stesse che scriverà Moro dalla prigione delle BR, quando sosterrà che la DC è diventata un mucchio di cenere, un partito unito dall’interesse, neppure più dalla fede, ma dall’apparentamento con la religione: si sono abbandonati i vecchi valori, senza proporne di nuovi.
Sempre secondo Moro la DC ha spalancato un pauroso vuoto di potere, perché non ha saputo più essere classe dirigente, ma solo classe dominante
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La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c'è un drammatico vuoto di potere.
Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.
Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, "come ci sono giunti gli uomini di potere?".
La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla "fase delle lucciole" alla "fase della scomparsa delle lucciole" senza accorgersene.


In altre parole, hanno visto dileguarsi il mondo dei valori sul quale aveva costruito il loro plusvalore politico, quella valorizzazione degli ideali semplici e concreti su cui avevano fondato il loro partito cha affondavano le proprie radici nella vecchia morale cattolica, propria degli strati popolari e delle classi medie, dando così vita a una modernizzazione capitalistica senza sviluppo che ha distrutto quegli stessi valori.
Con questa modernizzazione di cui la DC è stata promotrice, ha distrutto se stessa, diventando un partito consumistico-capitalistico.
Quando diventa un partito di organizzazione del potere smette di essere un partito cristiano.


Per quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una "normale" evoluzione, ma sta cambiando radicalmente natura.
Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera.
Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche.

E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante).

Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era "altro": incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà.
Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi.
Nella fase di transizione - ossia "durante" la scomparsa delle lucciole - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal '69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.


Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto.
Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient'altro che il luttuoso doppiopetto.


Analisi spietata di grande preveggenza: la DC, oggi non esiste più, si è dissolta come neve al sole 15 anni dopo questi scritti.
E si è sciolta non a causa dell’offensiva dei giudici di Mani Pulite, ma perché quegli atti giudiziari hanno colpito un partito corrotto fino al midollo dalla modernizzazione.
Nel rapporto tra sviluppo economico e partiti politici, resistono quei partiti che, non si adeguano piattamente ai valori dello sviluppo, ma che invece cercano di interpretarne i valori, di guidarli, generando valori specifici, e in un certo senso nuovi
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Tuttavia nella storia il "vuoto" non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il "vuoto" di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l'intera nazione. Ne è un indice ad esempio l'attesa "morbosa" del colpo di Stato.
Quasi che si trattasse soltanto di "sostituire" il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni, portando l'Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico.

In realtà la falsa sostituzione di queste "teste di legno" (non meno, anzi più funereamente carnevalesche), attuata attraverso l'artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la "truppa" sarebbe, già per sua costituzione, nazista).
Il potere reale che da una decina di anni le "teste di legno" hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il "vuoto" (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell'Italia: perché non si tratta di "governare").
Di tale "potere reale" noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali "forme" esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l'hanno preso per una semplice "modernizzazione" di tecniche.

Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola.


Pasolini darebbe qualunque cosa pur di tornare al vecchio mondo di valori distrutto da questa modernizzazione.

venerdì 26 marzo 2010

I partiti si cambiano con il dovere della astensione, poi spazzando la nomenklatura (di MASSIMO FINI)


Lasciamo perdere, per un momento, la questione Berlusconi e le inaudite pressioni, intimidazioni, minacce che il presidente del Consiglio ha esercitato su un commissario dell'Authority per le Comunicazioni, Giancarlo Innocenzi, perché si desse da fare per chiudere Annozero, zittire Floris e la Dandini, impedire che vengano ospitati personaggi sgraditi al Cavaliere, come Ezio Mauro, Eugenio Scalfari, o, dio guardi, Antonio Di Pietro. «Se lei avesse un minimo di dignità dovrebbe dimettersi» ha sibilato Berlusconi a Innocenzi.
Mentre è vero esattamente il contrario: se costui avesse avuto «un minimo di dignità» avrebbe dovuto mandare all'inferno l'energumeno ed eventualmente denunciarlo alla magistratura.
Ma come avrebbe potuto il poveraccio? È un uomo di Berlusconi, è stato sottosegretario alle Comunicazioni in un suo governo e un suo dipendente quale Direttore dei servizi giornalistici Fininvest-Mediaset.
Ci sarebbe voluto non un coniglio, ma un samurai disposto al kharakiri per contrastare la violenza dell'energumeno e reggere una situazione talmente anomala, grottesca e pazzesca che non ha paragoni in alcun altro Stato al mondo, democratico o non democratico, tanto da far dire persino al Direttore generale della Rai, Masi, che «cose simili non si vedono nemmeno nello Zimbawe».

Ma lasciamo perdere la questione Berlusconi-Innocenzi-Minzolini non solo perché Il Fatto Quotidiano, oltre ad essere stato il primo a darne notizia la sta trattando con l'ampiezza che merita, ma perché ne presuppone un'altra.

Al di là dell'atteggiamento particolarmente spudorato e violento dell'energumeno, la domanda è: quale indipendenza può mai avere la Rai-Tv, Ente di Stato, e quindi di tutti i cittadini, quando il Consiglio di amministrazione è nominato dai partiti, il presidente pure, la Commissione di Vigilanza anche, l'Autority per le Comunicazioni e ogni altra Autority idem, quando non c'è dirigente, funzionario, conduttore di programmi, giornalista, usciere il cui posto di lavoro non dipenda dall'appartenenza a una qualche formazione politica, da un rapporto di fedeltà e sudditanza, più o meno mascherato, diretto o indiretto, a qualche partito o fazione di partito?

E la questione della Rai-Tv è solo la più emblematica e evidente dell'occupazione sistematica, arbitraria, illegittima che i partiti, queste associazioni private, hanno fatto di tutti gli apparati dello Stato, del parastato, dell'amministrazione pubblica, che poi ricade a pioggia anche sull'intera società (facciamo un esempio semplice semplice, tanto per capirci: a Firenze se sei architetto e non sei infeudato a sinistra non lavori).

Si parla tanto, di questi tempi, di riforme: istituzionali, costituzionali, della giustizia, eccetera. Ma la riforma più urgente, e principale, è quella dei partiti, nel senso di un loro drastico ridimensionamento, della loro cacciata da posizioni che occupano abusivamente, arbitrariamente, illegittimamente.
Ma in democrazia solo i partiti possono riformare i partiti.
E non lo faranno mai perché questo vorrebbe dire perdere il potere con cui condizionano l'intera società italiana, abusandola, stuprandola, ricattandola, richiedendo ai cittadini i più umilianti infeudamenti per ottenere, come favore, ciò che spetta loro di diritto.

Come se ne esce? Agli inizi degli anni Ottanta, quando l'abuso e il sopruso partitocratico era ancora, nonostante tutto,ben lontano da quello di oggi, Guglielmo Zucconi, direttore del Giorno, quotidiano appaltato alla Dc e al Psi, mi permise di scrivere nella mia rubrica, Calcio di Rigore, un articolo in cui invocavo provocatoriamente, per l'Italia, la soluzione che il generale Evren aveva adottato per la Turchia dove l'occupazione, la corruzione, il clientelismo dei partiti aveva raggiunto vertici intollerabili, ma comunque ancora lontani da quelli dell'Italia di oggi.
Il generale Evren prese il potere, spazzò via tutta la nomenklatura partitocratica, e promise che, fatta una pulizia che in altro modo era impossibile, avrebbe restituito, entro cinque anni, il potere alle legittime istituzioni democratiche. Promessa che puntualmente mantenne.
E oggi la Turchia, pur in mezzo alle mille contraddizioni di un Paese la cui realtà è resa difficile dalla presenza di una fortissima minoranza curda, è un Paese "normale" con una maggioranza, un'opposizione, un premier che rispetta le leggi e la magistratura, e partiti che stanno al loro posto e nel loro ruolo, che è quello di coagulare il consenso, e non esondano in tutta la società civile.
Non è la Turchia che non ha i requisiti democratici per entrare in Europa.
È l'Italia che non li ha più per restarci.
Chissà che intanto la vicenda tragicomica, ma anche trucida, delle liste elettorali truccate, con la ulteriore aggravante dell'inchiesta di Trani non disgusti il cittadino al punto da fargli finalmente capire che la democrazia rappresentativa non ha niente a che fare con la democrazia, ma è un sistema (meglio congegnato in altri Paesi ma che da noi sta perdendo la maschera) di oligarchie, di lobbies, di camarille, di associazioni paramafiose, che il cittadino è chiamato ogni tot anni a legittimare col voto perché possano continuare, sotto la forma di un'apparente legittimità, i loro abusi, i loro soprusi, le loro illegalità.


E' evidente che dopo le elezioni i partiti, raccolto o piuttosto estorto in qualche modo il consenso, continueranno con le loro manfrine, le loro lotte intestine, i loro mascheroni che ogni giorno ci arringano dagli schermi televisivi senza che il giornalista, col microfono sotto il loro naso come una sputacchiera, abbia il coraggio, o la possibilità, di fare un'obiezione.

Io che assisto a questi spettacolini da una quarantina d'anni non posso avere lo stesso sgomento. Però la dose della mia nausea è, credo, di gran lunga superiore. Chi sono questi uomini che, al governo, nelle regioni, nelle province, nei grandi comuni, ci comandano e che noi, con un masochismo abbastanza impressionante che «dovrebbe lasciar stupiti gli uomini capaci di riflessione» come notava Jacques Necker già nel 1792, paghiamo perché ci comandino?

Sono uomini senza qualità la cui legittimazione è tutta interna al meccanismo "democratico" che li ha messi in orbita.
La loro sola qualità è di non averne alcuna. In queste congreghe di ominucoli, baciati in fronte dal truffaldino meccanismo elettorale, gli unici ad avere una qualche personalità sono quasi sempre degli approfittatori o lobbisti.
E non si sa davvero che preferire perché, come diceva Talleirand, «preferisco i delinquenti ai cretini, perché i primi, perlomeno, ogni tanto si riposano».

Torna in auge anche il "qualunquismo", altra parola tabù per le oligarchie.
Il Qualunquismo fu il movimento creato dal commediografo Guglielmo Giannini nel primo dopoguerra. Proponeva, in sostanza, l'abolizione dei partiti mentre il governo sarebbe stato affidato a un "Ragioniere dello Stato" che lo avrebbe tenuto per cinque anni, senza possibilità di rinnovo del mandato.
Il Qualunquismo era troppo in anticipo sui tempi.
Benché la partitocrazia fosse già ben presente nel Paese (nasce col Cln) le ideologie, liberalismo o marxismo, erano ancora forti e una scelta "o di qua o di là" poteva avere ancora un senso.

Ma oggi che i sedicenti liberali sono diventati illiberali (non solo in politica interna ma anche estera) e la sinistra, o presunta tale, ha abbracciato i gaudiosi meccanismi del libero mercato, la nostra unica alternativa è di scegliere da quale oligarchia preferiamo essere comandati, schiacciati, umiliati, pagando il tutto a prezzi, umani ed economici, altissimi.
Ben venga quindi un "Ragioniere dello Stato". E poiché in Italia ormai il più pulito c'ha la rogna io farei, come nel calcio, una campagna acquisti all'estero.
Un Gaulaiter tedesco andrebbe benissimo.

Fonte: http://www.massimofini.com

sabato 20 marzo 2010

AMBIENTALISMO TAMPONE

Il presidente Usa Barack Obama all’inizio del suo mandato aveva dichiarato di voler mettere fine entro dieci anni alla dipendenza dall’oro nero, coprire con le fonti rinnovabili il 10% del fabbisogno americano entro quattro anni, introdurre nuove tasse per le compagnie petrolifere e ridurre del 15% dei consumi di elettricità. Anche l’Unione Europea si è mossa in questa direzione approvando l'anno scorso un piano comune, che prevede la riduzione delle emissioni di Co2 del 20% secondo il protocollo di KYOTO e fino al 30% a partire dal 2013.
Traguardi ambiziosi e importanti che cercano di contrastare la piaga sempre più grande del cambiamento climatico.

Da Kyoto in poi quasi tutti i governi del mondo, in maniera più o meno di facciata e strumentale, sono diventati paladini della salute del Pianeta, mettendo in atto ogni possibile misura per "ridurre l'inquinamento", quasi sempre parziale e improvvisata.
Amanti dell'ambiente ma non fino al punto di dover sacrificare ad esso la produttività del sistema industriale.
Come ci insegna il governo italiano, secondo cui, con la crisi finanziaria in atto, non è il momento di "fare i Don Chisciotte" con obbiettivi che rischiano di danneggiare le imprese.
A parte la scandalosa miopia italiana che ha rischiato di far saltare il tutto, è lodevole l'impegno di Europa e Usa su questa strada; ben che resta il fatto che si tratta sempre e comunque di interventi parziali e approssimativi per salvare il salvabile di fronte a un disastro annunciato, quello ambientale, senza interrogarsi minimamente sulle sue cause.
L'ambiente è diventato un malato in condizioni disperate che si cerca di curare in tutti i modi, senza però rimuovere la causa originaria. Vale a dire che la Terra non è più in grado di sostenere i ritmi e i tempi di un modello economico basato sulla crescita economica illimitata. Una crescita votata quasi all'infinito che non si pone limiti nel depredare ogni risorsa naturale per perpetuare se stessa.
Governanti, economisti e potentati economici potranno riempirsi la bocca finche vogliono di parole come sviluppo sostenibile, politiche energetiche, protocolli di Kyoto, ma se non si comincia a mettere in discussione questo dogma intoccabile i danni al mondo che ci circonda saranno irreparabili.
E la qualità della nostra vita definitivamente compromessa.

giovedì 18 marzo 2010

La LIBERTA' del PENSIERO UNICO

Pubblico volentieri un magistale articolo dell'amico cremonese MASSIMILIANO VIVIANI, direttore del quotidiano online "Il Giornale del Ribelle", dove spiega con grande lucidità cosa si cela dietro il concetto di LIBERTA' nella nostra epoca moderna. Ormai la libertà di scelta è definita dal mercato ed è orientata soltanto verso di esso.
Il mercato sembra essere diventato l'unico luogo di decisione per quanto riguarda il destino delle persone, delle comunità, delle popolazioni, incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità, poichè il rapporto individuo-comunità si stabilisce solo secondo criteri economici. Il PENSIERO UNICO nel nostro sistema consumistico si serve dei miti del benessere e del successo per imporre la propria logica di "vivere per consumare".

"L'epoca moderna è l'epoca della libertà. Tale principio è stato enfaticamente espresso dall'Illuminismo e dai rivoluzionari francesi, e più recentemente ancora ripreso dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo dopo la Seconda Guerra Mondiale. La libertà informa ogni aspetto della nostra vita: dalla libertà di azione e di movimento alla libertà di pensiero, di espressione e di associazione, siamo obiettivamente partecipi di una molteplicità di possibilità e di scelte che in passato non potevano neppure immaginare.
Questo è un dato oggettivo incontestabile, uno dei pilastri su cui i sostenitori della modernità fondano la loro difesa contro i suoi detrattori. Tuttavia vi è nell'uomo moderno un disagio e un'inquietudine che con tale libertà non si accordano bene: se fosse questa davvero l'era della libertà finalmente conquistata -o meglio, delle libertà come si dice talvolta- ben altra dovrebbe essere la soddisfazione dell'uomo contemporaneo.
In effetti la sensazione che si respira nella vita di oggi è quella di una schiavitù sottile, impercettibile, impalpabile, che non risparmia neppure gli uomini più inseriti nel meccanismo, ma che non si riesce bene a identificare.

Quando si sostiene che nella modernità da una parte c'è una libertà diffusa di azione e di pensiero, ma dall'altra è in atto un processo di omologazione planetario e di appiattimento delle coscienze, sembra di stare di fronte ad una contraddizione. Ma non è così, perchè libertà e omologazione sono entrambi espressione di quel fenomeno tipicamente moderno chiamato totalitarismo. Per comprendere ciò, è utile capire la differenza tra pensiero dominante e pensiero unico, laddove il primo è caratteristico delle realtà tradizionali, il secondo dell'epoca moderna.
In ogni società tradizionale c'è sempre stata una forma di pensiero con la quale tutte le altre forme si dovevano confrontare e sulla quale si misuravano. Ciò significava che ogni altra visione delle cose e del mondo doveva evitare di porsi esplicitamente in contrasto con tale pensiero dominante. Di fatto, la diversità di pensiero veniva accettata come naturale. Non vi era la volontà di cancellare tali diversità. C'era solo la preoccupazione che una naturale pluralità di vedute non si trasformasse in un caos o che non minasse l'ordine costituito e l'autorità politica. In fondo, tale impianto era il medesimo della struttura feudale della società.

Caratteristico della modernità invece è il pensiero unico, ossia un controllo complessivo dell'individuo e della società finalizzato all'eliminazione di ogni forma di diversità, controllo portato dall'esterno nei regimi dittatoriali (comunismo, fascismo, nazismo) ma meglio ancora dall'interno attraverso la manipolazione delle menti come accade nella liberal-democrazia in cui viviamo.Quest'ultima forma di controllo è davvero "all'avanguardia" rispetto a quella caratteristica delle vecchie dittature del Novecento: la liberal-democrazia infatti agisce direttamente sul pensiero e sui desideri inconsci dell'uomo e non sull'azione esterna, e quindi è molto più pervasiva ed efficace, perchè non elimina le dissidenze con la repressione, ma fa in modo che sia l'individuo stesso a richiedere di conformarsi "naturalmente" e "liberamente" ad un modello unico -esclusivamente materiale- che viene presentato come sommamente attraente e vantaggioso per tutti.
Chi rifiuta questo modello perchè ne percepisce la perversità, è tagliato fuori, è un emarginato, un paria. Può in teoria pensare quello che vuole e propagandare ogni alternativa di pensero, ma di fatto è lui stesso che spesso richiede di adeguarsi al modello unico, se non ha la forza di affrontare la solitudine e l'incomprensione che inevitabilmente lo accompagnerebbero fuori da detto modello.Il pensiero unico delle società liberal-democratiche risiede quindi proprio nel modo di pensare privato, prima ancora che nella sua espressione pubblica: se non si è convinti dentro di sè della verità del pensiero unico, si è emarginati.
Non si può fingere con se stessi: bisogna autoconvincersi ogni giorno di stare vivendo nel migliore dei mondi possibili per riuscire a rimanere a galla! E se restano delle diversità nella cosiddetta "società aperta", come la definiva Popper, è solo perchè esse sono finte libertà e false scelte: sono piatti già preconfezionati dal meccanismo sociale, pluralità che non intaccano le sue fondamenta perverse.
Omologazione e libertà moderna -che parrebbero in contraddizione- sono quindi aspetti speculari di un unico totalitarismo. E' stato infatti proprio il totalitarismo di matrice economicista a ridurre la libertà esclusivamente al suo aspetto materiale, a farla diventare pura azione individuale.
E' stato proprio togliendo senso alla libertà stessa, che essa ha potuto esprimersi svuotata in ogni campo come mai aveva fatto nella storia, mentre l'economia dettava ovunque la legge materiale del denaro e del possesso di beni. Se la libertà avesse ancora un valore reale, essa come tutte le cose sarebbe limitata. Avrebbe un inizio e una fine. Avrebbe un ambito, dei riferimenti e persino delle censure. Essendo privata di senso, si può dire tutto perchè tutto non ha e non abbia più valore. Si può fare tutto, si può andare ovunque e si abolisce ogni limite perchè si annulla il valore delle cose, dato che solo il confine dà un valore alle cose del mondo.
Tale falsa libertà è in realtà una dissoluzione, una inorganicità che mira alla creazione di un amorfo universale e si esprime abbattendo ogni regola, ogni riferimento, ogni misura, lasciando solo la libertà del vuoto e del nulla".

mercoledì 17 marzo 2010

Tutto l'ODIO del Partito dell'AMORE

Non è mai stata e mai sarà intenzione di questo modesto blog concentrarsi su una sterile critica antiberlusconiana di tutto quello che succede in Italia.
Il vero “nemico” e bersaglio è il Potere in tutta le sue forme e in tutta la sua protervia. I vari Berlusconi, Bersani, destra e sinistra sono solo la punta dell’iceberg di un sistema politico-economico marcio e da abbattere.
Detto questo non posso tacere su un clima inaccettabile e pesante che si è creato negli ultimi tempi quando si parla di “opposizione”.
Non certo quella inutile del Pd e sguaiata di Di Pietro, ma del sacro santo diritto al dissenso. E’ diventata ormai prassi criminalizzare ogni forma di pensiero critico, soprattutto nei confronti del governo. La cosa è inaccettabile.
Tanto che si è arrivati addirittura a sponsorizzare una ridicola guerra tra “fautori dell’amore” e spargitori di odio”.
“Noi vogliamo che trionfi il Bene sul Male”, era questa la dichiarazione lanciata da Silvio Berlusconi nel 1994. Una contrapposizione frontale controllano”): chi non è con lui,è un “nemico “, “terrorista”, “coglione”, “miserabile”, “illiberale”, “mentecatto”… Seminando odio, il partito dell’amore ha screditato le istituzioni, la magistratura, qualsiasi forma di opposizione.
Il libro “IL PARTITO DELL’AMORE” di MARIO PORTANOVA, pubblicato in questi giorni da Chiarelettere, ricostruisce il clima che sta funestando il paese e ci sbatte in faccia la volgarità, il razzismo, la violenza verbale, il disprezzo che fa da sfondo alla politica del Pdl e della Lega, amplificata dagli organi d’informazione vicini al centro destra: Libero, Il Giornale, La Padania, Tg4, Studio Aperto e il Tg1. Ecco smascherato chi sta buttando via il patrimonio democratico e civile dell’Italia.
Posto due estratti del libro

Dove si annida l’odio
Il senatore padano pensa al forno crematorio per i clandestini. L’avvocato di Forza Italia vorrebbe la morte di un giudice. Il collega deputato godrebbe accompagnandone un altro alla forca. Il capogruppo ex missino dà dello sfigato al giornalista che riprende il comizio. Il ministro della Difesa addita come pedofilo un contestatore. Il ministro dell’Interno immagina medici e presidi delatori per individuare ed espellere gli stranieri senza documenti. Il segretario nazionale della Lega Nord è convinto che i banchieri ebrei complottino per fiaccare l’Europa, inondandola di venti milioni di immigrati. Per il giornale «Libero» quelli di sinistra sono bamba, mediocri, pagliacci, buffoni, papponi. A Radio Padania si dibatte la questione della razza e gli ascoltatori si sfogano contro i transessuali: cessi, aborti umani, immondi, bestie. Il presidente del Consiglio parla di elettori coglioni, giudici matti, cancri da estirpare, bambini bolliti. E di avversari che, se vincessero le elezioni, porterebbero solo miseria, terrore e morte.
È il Partito dell’Amore.
Il 13 dicembre 2009, dopo aver terminato un comizio, Silvio Berlusconi è in mezzo alla folla in piazza Duomo a Milano. Un oggetto lo colpisce in faccia, le telecamere riprendono il suo volto insanguinato. Gli uomini della sicurezza lo caricano in macchina, ma lui scende subito e resta fuori qualche istante. Poi risale e lo portano via. L’oggetto che l’ha ferito è un duomo in miniatura, di quelli che si vendono in piazza come souvenir. I medici dell’ospedale San Raffaele diagnosticano al presidente del Consiglio una ferita lacero-contusa al volto e due denti lesionati.
L’aggressore, fermato e arrestato sul posto, si chiama Massimo Tartaglia, ha quarantadue anni, vive nell’hinterland a Cesano Boscone. È in cura per problemi psichici e la Digos comunica, la sera stessa, di non avere traccia di lui nei suoi archivi. Non è mai stata segnalata la sua appartenenza a gruppi politici di qualsiasi natura, o la sua partecipazione a manifestazioni estremiste, e niente emergerà in seguito.

Il quadro è chiaro: è stato il gesto isolato di una persona psicolabile. Invece no, il centrodestra compatto scatena la macchina delle dichiarazioni per dire che quanto avvenuto in piazza Duomo è frutto del «clima d’odio» creato intorno al premier dall’opposizione e da certi giornali. Pochi minuti dopo l’aggressione, il ministro della Cultura Sandro Bondi detta alle agenzie: «Quello che di aberrante e terribile è accaduto è il frutto di una lunga campagna di odio che è stata scatenata da precisi settori della politica e dell’informazione». La formula è fotocopiata con poche varianti da un fiume di esponenti del centrodestra.

Il cerchio si stringe due giorni dopo, il 15 dicembre, quando la Camera dei deputati discute l’informativa del ministero dell’Interno sui fatti di piazza Duomo. Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Popolo della libertà, individua i«mandanti» con nomi e cognomi: «L’espresso», «la Repubblica», «Il Fatto Quotidiano», i giornalisti Michele Santoro e Marco Travaglio, il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro, alcuni magistrati. La mano di chi ha aggredito Berlusconi, denuncia Cicchitto, «è stata armata da una spietata campagna di odio, il cui obiettivo è il rovesciamento di un legittimo risultato elettorale».
La campagna – il riferimento è agli scandali sessuali che hanno coinvolto Berlusconi e a nuove accuse di rapporti con la mafia – è orchestrata da «un network composto dal gruppo editoriale Repubblica-Espresso, da quel mattinale delle procure che è “Il Fatto Quotidiano”, da una trasmissione televisiva condotta da Santoro e da un terrorista mediatico di nome Travaglio».

Gli altri nodi della rete sono «alcuni pubblici ministeri» impegnati in processi su mafia e politica, che «vanno nei più vari talk show televisivi a demonizzare Berlusconi» e «l’Italia dei valori, il cui leader Di Pietro sta in questi giorni evocando la violenza».
Ecco dove si annida l’Odio. Ma dove sta l’Amore? Lo rivela Berlusconi, ancora in ospedale, quello stesso giorno: «State tutti sereni e sicuri, perché l’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio». Il 26 dicembre tornerà sul punto: «Sempre una volta di più dico che l’amore vince su tutto, non solo sull’odio che rende violente contro l’avversario politico le menti più fragili. Al contrario di ciò che noi facciamo, perché noi rispettiamo l’avversario politico».

Così prende forma la favola del Partito dell’Amore. Dell’esercito del Bene contrapposto all’esercito del Male. «Sono in politica perché il Bene prevalga sul Male» aveva già proclamato il Cavaliere anni prima, benché la circostanza non rendesse giustizia alla solennità dell’annuncio (Berlusconi era in collegamento telefonico con la manifestazione forzista «Neve Azzurra» di Roccaraso in provincia dell’Aquila, il 16 gennaio 2005). La favola è raccontata ogni sera in televisione, prima che il popolo vada a letto, ed è ampiamente creduta.

È davvero così? Chi sono, che cosa fanno, che cosa dicono i principali esponenti del Partito dell’Amore? Che cosa scrivono i loro giornali, che cosa dicono le loro televisioni e le loro radio? Potete farvene un’idea dalle pagine di questo libro. I campioni dell’Amore approvano leggi che sono definite «razziali», oppure ad personam. Portano in Parlamento chi ha acquisito meriti speciali, come un’inchiesta penale o la radiazione dall’albo professionale. Vietano la costruzione di luoghi di culto a centinaia di migliaia di musulmani regolarmente residenti in Italia, e protestano quando il loro affollamento in posti inadeguati crea disagi.
Invocano vagoni piombati, linciaggi, castrazioni, rastrellamenti, schedature, espulsioni, «tutti fuori dalle balle». Se però a finire nei guai è uno del Partito dell’Amore, sono garantisti «fino al giudizio di Cassazione».
Minacciano con leggerezza pallottole, rivolte del popolo in armi, secessioni, ma accusano di eversione chi applica la Costituzione. Credono di essere vittime di complotti interni o mondiali, dicono che ci vorrebbe una nuova battaglia di Lepanto.

Se la prendono con «i culattoni», insomma «i finocchi». Berlusconi e i suoi avatar combattono una guerra mediatica quotidiana contro i bersagli del momento, e intanto si lagnano di essere «demonizzati», secondo la tipica tecnica dei «comunisti».
Teorizzano un’inedita concezione di democrazia, secondo la quale chi ha la maggioranza dei voti può dire e fare tutto ciò che gli passa per la testa.











L’odio paga
Il «clima d’odio» in Italia c’è davvero. Anche contro Berlusconi, ma non solo contro Berlusconi. «Odio» magari è troppo, diciamo astio, risentimento diffuso. Di questo clima, però, il principale responsabile è proprio lui. Non favorisce la concordia definire coglioni gli elettori avversi, sottrarsi sistematicamente alle leggi, dominare sfacciatamente il sistema televisivo, imbarcare gli alleati più imbarazzanti, praticare una costante autoincensazione, circondarsi di un’adulazione grottesca e di collaboratori con curriculum penali sconcertanti.
Non rasserena gli animi vedere la sistematica promozione ad alti incarichi governativi e istituzionali di personaggi noti soltanto per la loro piatta adesione a qualunque necessità del Capo (senza voler scendere in altre malignità vociferate ma non documentabili).

Di Berlusconi non si contano le battutacce, le gaffe, gli insulti, spesso strategicamente piazzati nelle campagne elettorali difficili, per afferrare la pancia dell’elettorato più umorale e trascinarlo alle urne. I suoi lo seguono in blocco, senza se e senza ma. Si aggiungono le cosiddette «sparate» degli alleati leghisti, sempre difese e minimizzate. Sono cose che si dicono «nella foga dei comizi», sono tecniche per conquistare «spazio sui giornali», oppure «solo provocazioni»... Dicono che bisogna tirare cannonate ai barconi dei migranti, ma tanto poi mica lo fanno, dunque che problema c’è?

Il problema è che dopo sedici anni di berlusconismo assistiamo in Italia a un continuo aumento di pestaggi razzisti, a roghi e rivolte contro «zingari» e «negri», ad avvisaglie di pogrom sempre giustificate, se non appoggiate o guidate, dagli esponenti dell’«esercito del Bene». Per scovare i «clandestini» casa per casa si organizzano operazioni di polizia locale denominate «White Christmas», come è accaduto nel 2009 a Coccaglio, in provincia di Brescia.
Ai comizi di Berlusconi capita di incontrare signore impellicciate che non usano toni tanto diversi da quelli dei vituperati centri sociali, cambiano solo i bersagli: i «comunisti», i «giudici rossi», i sindacati «che hanno rovinato l’Italia», i giornalisti «faziosi», gli «extracomunitari che rubano e stuprano»... Sottobraccio hanno «Libero», magari con un titolo di prima pagina tipo «Prodi giustiziato. Il sogno s’è avverato».

Dove stanno nell’Italia del 2010 i cattivi maestri, i «Toni Negri bis», come disse di Bossi nel 1996 l’allora dirigente di Alleanza nazionale Gianni Alemanno?
Giorno dopo giorno, la goccia degli slogan ha scavato la pietra dell’opinione pubblica. Mentre si continuano a evocare i fantasmi di un comunismo sepolto dalla storia, il fascismo è stato sdoganato da tempo, per il nazismo si stanno sbrigando le ultime formalità. «Io sono del parere che se toccano un mio familiare applico la legge delle SS, uno a dieci» ha detto al Consiglio comunale di Treviso il leghista Giorgio Bettio il 4 dicembre 2007, perché sua madre aveva avuto un diverbio condominiale con un vicino di casa straniero.
Ed è solo un esempio. Su internet intanto spuntano siti sulla supremazia bianca in versione italiana. Le «menti fragili» esistono, da una parte e dall’altra.

L’odio paga. Il Cavaliere, più volte dato per finito, è sempre risorto grazie a campagne elettorali urlate e all’incapacità del centrosinistra di presentare una visione alternativa convincente.
«Libero» è un quotidiano di successo, lo stile del direttore Vittorio Feltri sfonda in edicola. I leghisti famosi per le loro sparate non sono affatto personaggi folcloristici. Calderoli è ministro ed è stato vicepresidente del Senato, oltre a essere un uomo chiave del partito. Borghezio, Boso, Gentilini, Salvini ottengono migliaia di preferenze personali e alle feste di partito raccolgono ovazioni da star. Umberto Bossi è segretario della Lega da più di venticinque anni ed è il perno della maggioranza che governa questo paese.

Così il racconto del Partito dell’Amore si trasforma in un viaggio alla scoperta delle radici dell’odio

venerdì 5 marzo 2010

DRAMMA RIFIUTI in Campania, ITALIA CONDANNATA


La solita informazione di regime ci aveva trionfalmente annunciato che la decennale emergenza rifiuti in Campania era finalmente risolta. Strade sgombre da rifiuti, nuove discariche aperte, impianti di trattamento e samltimento funzionanti ad efficienti. Ma dietro a questa patina mediatica mistificante si cela uno dei più grandi disastri ambientali del nostro paese, che si suppone arginato. A raffreddare bruscamente gli entusiasmi ci ha pensato proprio in questo giorni la Corte di Giustizia dell'Unione Europea che ha condannato espressamente l'Italia sul caso dei rifiuti in Campania, accogliendo il ricorso presentato dalla Commissione Europea nel luglio 2008. In particolare secondo la sentenza, «non avendo creato una rete adeguata ed integrata di impianti di recupero e di smaltimento dei rifiuti nelle vicinanze del luogo di produzione e non avendo adottato tutte le misure necessarie per evitare di mettere in pericolo la salute umana e di danneggiare l'ambiente nella regione Campania, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza della direttiva rifiuti».


«Una sentenza meritata. Perché quindici anni di commissariamento della regione non sono serviti a null’altro che a sprecare circa tre miliardi di euro per avere, ad oggi, impianti di trattamento inadeguati, centinaia di siti da bonificare in tutta la Campania, emergenze sanitarie da affrontare e multe salate da pagare». È senza appello il commento di Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente sulla decisione presa dalla Corte di Giustizia europea sulla gestione dei rifiuti.
Il capo della Protezione civile Guido Bertolaso, appresa la notizia, ha affermato ieri che la decisione della Corte Ue riguarda «una situazione antecedente al maggio 2008». Cioè prima che arrivasse lui a “risolvere” l’emergenza, con la bacchetta magica delle deroghe proprio alle norme comunitarie. O meglio del suo ritorno, perché tranne la breve parentesi dell’ex capo della polizia De Gennaro, Bertolaso è stato commissario dal 9 ottobre 2006 al 7 luglio 2007. La procedura di infrazione da parte dell’Ue e il congelamento da parte di Bruxelles di tutti i fondi comunitari destinati alla Campania avviene nel giugno 2007. E riguarda quindi anche la prima gestione Bertolaso, dell’emergenza rifiuti. In più non bisogna dimenticare che sulla «gestione irregolare del ciclo dei rifiuti» da parte del dipartimento di Bertolaso indagano sia i magistrati partenopei che quelli tedeschi.

La Procura di Napoli ritiene «fittizie» le operazioni di trattamento dei rifiuti che entravano negli impianti e uscivano tali e quali. Dopo aver arricchito con soldi pubblici la Fibe che li gestiva (gruppo Impregilo-Fiat). In Germania cercano invece le prove del sistema escogitato dalle ecomafie per smaltire illegalmente i rifiuti tossici. Gli inquirenti tedeschi ipotizzano sia stato usato per fare arrivare in Sassonia, nella discarica di Grosspoesna, i treni carichi di rifiuti campani. Proprio durante il picco dell’emergenza nel 2007. Anche per la Procura di Napoli: «Assegnavano ai rifiuti, anche speciali, codici non veritieri». Ora i magistrati tedeschi vogliono capire come mai 107mila tonnellate di rifiuti campani spediti in Germania, sulla carta erano resti di tipo minerale. Perché l’ipotesi è che la spazzatura spedita all’estero dalla Protezione civile avesse documenti e codici identificativi non in regola.


Risvolti giudiziari e danni ambientali a parte, emergono ancora oggi disfunzioni strutturali mai risolte e l'incapacità di attenersi alle normative europee che chiedono di limitare la produzione di rifiuti promuovendo tecnologie pulite e prodotti reciclabili. Ma l'Italia sta andando nella direzione opposta, legata ancora a un sistema che privilegia le discariche e l'incenerimento.Tant'è vero che a quasi un anno dall'emergenza le percentuali di raccolta differenziata sono ancora imbarazzanti e gran parte di quello che viene raccolto finisce in discarica anzichè destinato ai centri di reciclaggio. E chi ne parla ancora di queste cose? E' la dimostrazione che l'illusionismo della coppia "del fare" B&B ha funzionato: tolti i rifiuti dalle strade ( che sono solo la punta dell'iceberg e la parte più vistosa e meno sostanziale del problema) l'emergenza è risolta. Nel frattempo restano bloccati i 500 milioni di euro fondi comunitari destinati alla Campania e la tutela della salute e l'integrità dell'ambiente sempre più problematiche. In attesa di tornare alla "normalità" il Paese paga pegno.

G8, BOLZANETO: una sentenza di VERITA'


Non sarà forse una sentenza storica, ma sicuramente utile per riportare un pò di verità, quella pronunciata in questi giorni dalla Cortedi Appello di Genova che ha dichiarato responsabili civilmente tutti i 44 imputati del processo per le violenze nella caserma-carcere della Polizia di BOLZANETO durante il G8 del luglio2001.

La sentenza di secondo grado ha completamente ribaltato il verdetto di primo grado, condannando al risarcimento del danno anche gli imputati che erano stati assolti dal Tribunale. In primo grado le condanne erano state solo 15. Dunque le violenze, i soprusi e le sevizie perpetrate dalle Forze dell'Ordine sono realmente avvenute. E anche se i reati sono stati dichiarati prescritti, i poliziotti, gli agenti della polizia Penitenziaria e anche i medici sono stati dichiarati responsabili civilmente, e dovranno pagare, non con anni di galera ma con denaro. Prescritti ma colpevoli

L’importanza della sentenza, che riconosce che a Bolzaneto vi furono «gravi violazioni dei diritti umani» è stata sottolineata anche da Amnesty International: «La mancanza nel codice Penale italiano del reato di tortura, che l’Italia è obbligata a introdurre dal 1988 - ha commentato il portavoce Riccardo Nouby - ha fatto sì che alla gravità delle azioni commesse non abbiano corrisposto sanzioni altrettanto dure. La previsione del reato di tortura avrebbe impedito la prescrizione. È importante che anche attraverso questa sentenza non vi siano più altre Bolzaneto in Italia».


Tornando a quel fatidico 2001, le persone fermate e arrestate durante le manifestazioni del G8 a Genova avrebbero dovuto essere condotte nella caserma del quartiere genovese di Bolzaneto, che era stata approntata come centro per l'identificazione dei fermati.
Secondo il Rapporto dell'ispettore Montanaro, frutto di un'indagine effettuata pochi giorni dopo il vertice, nei giorni della manifestazione transitarono per la caserma 240 persone (di cui 184 in stato di arresto, 5 in stato di fermo e 14 denunciate in stato di libertà), ma secondo altre testimonianze di agenti gli arresti e le semplici identificazioni furono molte di più, quasi 500.
In numerosi casi, i fermati accusarono il personale delle forze dell'ordine di violenze fisiche e psicologiche, e di mancato rispetto dei diritti legali degli imputati (impossibilità di essere assistiti da un legale o di informare qualcuno del proprio stato di detenzione): gli arrestati raccontarono di essere stati costretti a stare ore in piedi, con le mani alzate, senza avere la possibilità di andare in bagno, cambiare posizione o ricevere cure mediche. Inoltre riferirono di un clima di euforia tra le forze dell'ordine per la possibilità di infierire sui manifestanti, e riportando anche invocazioni a dittatori e ad ideologie dittatoriali di matrice fascista, nazista e razzista e minacce a sfondo sessuale nei confronti di alcune manifestanti.

I pubblici ministeri del processo riferiscono di persone costrette a stare in piedi per ore e ore, fare la posizione del cigno e della ballerina, abbaiare per poi essere insultati con minacce di tipo politico e sessuale, colpiti con schiaffi e colpi alla nuca e anche lo strappo di piercing anche dalle parti intime. Molte le ragazze obbligate a spogliarsi, a fare piroette con commenti brutali da parte di agenti presenti anche in infermeria. Il P.M. Miniati parla dell'infermeria come un luogo di ulteriore vessazione.Secondo la requisitoria dei pubblici ministeri i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria aggiungendo che soltanto un criterio prudenziale impedisce di parlare di tortura, certo, alla tortura si è andato molto vicini..

Esistono dettagli e racconti ancora più agghiaccianti e precisi di questa che è una delle pagine più ignobili e vergognose della nostra storia. Unica consolazione: tra indignazione di pochi e indifferenza di troppi, con la recente sentenza riaffiora una preziosa goccia di giustizia.